Oggi a quasi 38 anni
l’ex centrocampista della Pro Vasto al calcio non pensa più ma in biancorosso
ha vissuto, in C2, due stagioni e mezzo
“Lo dicevo anche in quegli anni e lo ripeto ancora, quando da Pesaro decisi di accettare la chiamata della Pro Vasto, dall’alto della mia ignoranza geografica, pensavo di andare a vivere in un paesino. Poi capii dove ero arrivato, in un paradiso, mi innamorai subito di Vasto e lo sono ancora”. Daniele Cacciaglia, come molti altri suoi ex compagni ha indossato la maglia biancorossa negli anni del professionismo ma come lui nessuno dal 2005 al 2010 ha affrontato quel lungo cammino, nel bene e nel male. Il playoff del 2006, l’amara retrocessione del 2007 e la salvezza del 2010, il centrocampista romano c’è sempre stato, un soldato che per la causa biancorossa ha sempre risposto presente.
Lo abbiamo intercettato a dieci anni dal suo ultimo saluto a Vasto, oggi vive nella sua Roma con moglie e figlie ma come vedremo nella sua vita il calcio non è più un argomento di grande interesse, tutt’altro.
Daniele Cacciaglia,
da dieci anni lontano dalla Pro Vasto, sei rimasto in altre vesti nel mondo del
calcio? “No, oggi famiglia e lavoro
sono i miei pensieri dominanti, il calcio non mi appartiene più. In campo fino
a tre/quattro anni fa, poi sentivo sempre meno quella passione avvolgermi fino
a perderla del tutto. Se ti pesa andare al campo, in allenamento non sei
concentrato come un tempo e intorno vedi che quel mondo perde credibilità con
il passare del giorno. Appese le scarpette al chiodo ho deciso di concentrare
tutte le mi attenzioni su altro, il calcio mi ha avvolto per tantissimi anni,
mi sono parecchio divertito, tolto tante soddisfazioni ma la sua assenza nella
mia vita oggi non mi pesa affatto”.
1 presenza in A con
il Perugia, negli ultimi anni un po’ di D ed Eccellenza ma in mezzo quasi 200
presenze tra C1 e C2 con tre parentesi biancorosse, cos’è stata per te la Pro
Vasto? “Nelle mie parole non c’è un
briciolo di piaggeria, Vasto e la Pro Vasto sono tra i momenti più belli della
mia carriera, forse addirittura i più belli. Ricordo ancora di aver accettato
la chiamata nel 2005 con grande entusiasmo ma con tanto scetticismo dettato
dalla mia ignoranza geografica. Pensavo di dover andare a vivere in un paesino
sperduto ma al mio arrivo a Vasto ebbi un vero e proprio colpo di fulmine, me
ne innamorai subito e a quella piazza, non solo calcisticamente parlando ancora
oggi sono molto legato. Il mare, lo splendido centro storico, anche nella mia
stagione e mezza con la Val di Sangro vivevo comunque a Vasto”.
Andiamo per ordine,
stagione 2005/2006, abbiamo parlato con tanti tuoi ex compagni, alcuni arrivati
però a fine mercato, tu c’eri dall’inizio? “Sì, ricordo bene lo scetticismo che si respirava intorno a quel gruppo
soprattutto perché almeno nei primi giorni eravamo in pochi e aleggiava tanta
insicurezza. In campionato però la partenza non fu perfetta ma neanche disastrosa,
mister Anzivino era andato via lasciandoci fuori dalla zona playout”.
Il cambio di passo
decisivo lo portò Danilo Pierini, che tipo di allenatore hai conosciuto? “Un sergente di ferro che lavorava per
tenere tutti sulla retta via. Martellante e schietto come pochi incontrati
nella mia carriera, era un burbero positivo. Insieme a lui però di quell’annata
non dobbiamo dimenticare l’apporto del preparatore Carlo Pescosolido, grazie a
lui corremmo tutti a 200 all’ora per una stagione intera”.
Un gruppo da tutti
ricordato come granitico dentro e fuori dal campo ma oltre quello cosa c’era? “Sulla forza del gruppo impossibile dire il
contrario ma dobbiamo ricordare anche altro, la grande qualità in tutti i reparti
e la personalità nonostante stessimo parlando di una squadra molto giovane ma
aiutata parecchio dagli esperti. Molti ricordano Gallipoli come partita
principe ma noi anche in altre facemmo vedere di che pasta eravamo fatti:
coesione, qualità e personalità, le avevamo tutte a nostro favore”.
La grande cavalcata
fino alla sconfitta nel playoff, a distanza di quattordici anni avevate fatto
il massimo o si poteva alzare ulteriormente l’asticella? “Ci abbiamo provato fino alla fine, anche a
Rende, in partite come quelle il dettaglio fa la differenza. Un rimpianto però
ce l’ho, quei 180 minuti mi piacerebbe rigiocarli con Marco Biagianti in campo,
le sue due giornate di squalifica tra andata e ritorno si fecero sentire
tantissimo”.
A proposito di
Biagianti, lui come Cazzola si sono ritrovati in Serie A. Con loro per una
stagione e mezza ti sei giocato il posto strappando parecchie maglie da
titolare, c’era competizione tra voi? “Nemmeno
per sogno, la nostra forza era anche in quello. Tutti ci allenavamo al massimo
delle nostre potenzialità sapendo che mister Pierini non aveva figli e
figliocci. Tanto parlano i numeri, eravamo in 14, quasi tutti con lo stesso numero
di presenze a fine stagione”.
Pensavi che entrambi
riuscissero ad arrivare a sfidarsi nella massima serie? “Le qualità di Marco Biagianti erano
chiarissime, era solo di passaggio in C2 e se non fosse arrivato in Serie A
sarebbe stato uno scandalo calcistico. Riccardo Cazzola era diverso ha trovato
la A con pieno merito grazie alla sua grande voglia. Partendo da doti fisiche
straordinarie e una mentalità pazzesca era quasi sempre l’ultimo a finire l’allenamento
che completava con sessioni extra di addominali ed altri esercizi posturali”.
Qualità, personalità
ma forza del gruppo, ne hanno parlato tanto i tuoi compagni, tu cos’hai da dire
a riguardo? “Più che un gruppo una
grande famiglia. Le giornate trascorse tutte insieme perché noi giovani
abitavamo tutti vicini a Vasto Marina. I pranzi e le cene in compagnia ma anche
l’atmosfera durante gli allenamenti, finivamo alle 17 ma fino alle 18:30
eravamo ancora negli spogliatoi a ridere e scherzare, belle giornate e
fantastici ricordi”.
L’Aragona lo conosci
bene, in quella stagione che atmosfera si respirava? “Nelle prime domeniche percepivamo scetticismo e perplessità verso di
noi e neanche potevo dargli tutti i torti. Poi però siamo stati bravi a far
cambiar loro idea con le prestazioni sul campo. La risposta fu splendida, i
tifosi ci diedero una mano incredibile, alcune partite, ricordo quelle contro
Melfi e Marcianise, senza il loro incessante tifo sono sicuro sarebbero andate
in altro modo”.
Saluti Vasto nell’estate
del 2006 ma torni nel gennaio del 2007 per dare il tuo contributo a una
stagione chiusa nel modo più drammatico con la retrocessione a Celano, una
pagina dimenticata? “I ricordi, belli
o brutti che siano non si cancellano neanche a distanza di tanti anni. In estate
avevo voglia di provare una nuova avventura, andai a Carpenedolo ma il richiamo
della maglia biancorossa fu forte, volevo dare il mio contributo per cercare di
contribuire alla salvezza”.
Cosa non andò quella
domenica? “A ripensarci oggi ho
ancora tanta rabbia per quel maledetto playout. L’avevamo ribaltata, al 94’ era
fatta per la salvezza dopo i gol di Ciano e Mignogna ma in quell’ultima azione
sbagliammo di tutto. Da un banale errore di concetto all’insicurezza di aver
lasciato quel fallo laterale che era nostro al Celano fino al gol di Luiso
sulla linea di porta, probabilmente in fuorigioco, che ci ha condannato. Sette errori
evitabili in una sola azione, pazzesco, ricordo i volti distrutti negli
spogliatoi, non era stata una bella stagione ma meritavamo quella salvezza”.
Ancora Carpenedolo,
Val di Sangro, Lamezia e rieccoti a Vasto nell’estate del 2009, perché il terzo
sì? “Il presidente Crisci mi avrebbe
rivoluto anche l’anno precedente, con lui avevo un ottimo rapporto. Non posso
che parlare bene di lui, figura eccezionale, distinta e sempre disponibile, non
ha mai vestito i panni del padre padrone”.
Salvezza senza troppi
affanni ma cosa non andò per ripetere l’exploit del 2006? “La vittoria del campionato qualche mese
prima aveva riportato grande entusiasmo intorno alla squadra. Quell’estate
erano arrivati elementi importanti, si parlava sempre di salvezza come
obiettivo ma anche noi sapevamo che potevamo fare qualcosa in più. Quelle
stagioni fanno parte del gioco, ci provi ma non tutto si incastra a meraviglia
e non riesci ad esprimerti al meglio ma non fu assolutamente una stagione da
buttare. Ricordo che non riuscii a dare il mio contributo perché soffrivo di
continui fastidi alla caviglia”.
Sei tra i pochi che ha vissuto le esperienze vastesi con Pino Di Meo prima compagno di squadra e poi allenatore, in cosa era cambiato? “Nel vestire, non lo vedevo più la domenica con maglia e pantaloncini ma aveva la tuta o felpa e jeans. Per il resto è sempre stato lo stesso, uno stimolo continuo, ci faceva sempre stare con la antenne dritte, un martellante positivo. Da compagni di squadra lo avevo sempre alle spalle, le sue erano urla positive, sempre a fine di bene, un trascinatore nato”.
Antonio Del Borrello – antoniodelborrello@vasport.it